Da Ravenna in linea Massimo Ristuccia. I ricordi del passato. Le case...
Da Prospettive 15 marzo 1942. i ritratti (fotografie) che ornano le case, son ritratti di morti:
(Prospettive era una prestigiosa rivista letteraria, artistica e politica fondata e diretta da Curzio Malaparte tra il 1937 e il 1943, con collaborazioni di intellettuali importanti come Moravia e Praz, che fungeva da tribuna per le idee e le discussioni del tempo).
Aggiungo, per mia personale esperienza, che in tutta l'Italia meridionale, i ritratti (fotografie) che ornano le case, son ritratti di morti: o distesi sui letti, in mezzo a ghirlande, o nella bara, o stranamente seduti sul letto, con gli occhi sbarrati. Nelle due stanze che abitavo a Lipari, durante la mia deportazione, e che appartenevano all'Avv. Franza, molto noto nelle isole, e persona rispettabile e civilissima, i muri erano tappezzati di fotografie di morti; fra gli altri, quella di una giovane madre, morta di parto, con fra le braccia il suo bambino, che io credevo morto, e mi fu detto era vivo, quando la fotografia fu presa. «Ma morì poco tempo dopo>> mi fu detto.
Il fotografo di Lipari, Signor Costa, un uomo simpatico, gentile, e triste, cui la polizia fascista di Lipari aveva ucciso il padre a colpi di calcio di fucile nella testa, col quale avevo intrecciato rapporti di cordiale amicizia, aveva una collezione bellissima di fotografie di morti. Una fra le altre ricordo: quella della moglie del proprietario di un negozio di chincaglieria, situato nel Corso Vittorio Emanuele, e di nome Famularo, morta in due ore di polmonite, una di quelle polmoniti fulminanti, così frequenti a Lipari per causa del clima variabilissimo, e del continuo velo di polvere di pietra pomice, sospeso nell'aria, e letale per i polmoni. La donna, di forse quarant'anni, era distesa, quasi seduta, sul letto, la testa appoggiata a un mucchio di cuscini: e rideva.
Rideva mostrando i denti, che aveva grandi e aguzzi, con un'espressione allegra e crudelissima. Il signor Costa ebbe a dirmi un giorno di non possedere nessuna fotografia propria, di non essersi mai fatto fotografare, e che non si sarebbe mai fatto fotografare per nulla al mondo. «Nella carta d'identità, aggiunse, non c'è il mio ritratto, ma quello di un mio cugino, che mi assomiglia». Egli pensava, forse con ragione, che il ritratto di un uomo vivo e quello di un uomo morto si assomigliano, e che farsi fotografare significa andare incontro, prepararsi alla morte, chiamarla, quasi.
Né mi si obbietti che tali credenze son le vestigia di tempi superstiziosi, antichissimi tempi: poiché è proprio nelle credenze antiche che giace la spiegazione di molte cose moderne, e che specie nelle superstizioni concernenti la riproduzione della figura umana si trova la chiave della natura stessa dell'arte.