Da Milazzo in linea Ettore Resta. La costruzione del porticciolo di Panarea

di Ettore Resta

Quando tornarono al pontone curiosi di sapere, chiesero a Bartolino l’ormeggiatore cosa fossero ed il barbuto barcaiolo anziano del paese interruppe sorridendo:  Calajunco ci sono i resti delle abitazioni dei primitivi abitanti dell’isola, circa diecimila anni fa. Panarea era l’unica grande isola esistente, le altre dovevano ancora sorgere, continuò. A ciò il capitano ed il motorista si proposero di visitarlo.  Nella costa non c’è più strada e bisogna andare in barca od arrampicarsi. non c’è strada, è stata ingoiata dal tempo. Riprese il barbuto. Così il primo giorno di non lavoro fu l’occasione di girare l’isola dal mare con la barca a remi di bordo. La nera costa nodo dell’isola era ampiamente diroccata come fosse stata tagliata di netto. Nel remare piano, lungo una vetrosa parete liscia, un serpentone di lava di struttura diversa esposta a nord, sembrava voler salutare, il fumante Stromboli. Risaliva sinuosamente dal mare fino al semi imbuto del cratere lasciando intuire l’effetto dei terremoti che avevano fatto crollare parte dell’isola. Su esso saliva arrampicandosi lentamente una lucertolina nera. 

La regina della lava, molto simile a quelle esistenti a Strombolicchio ed alla Canna di Filicudi. Sii chiesero come e quando fossero arrivate in queste isole così lontane abbandonando il colore verde della pelle, e come riuscissero a sopravvivere in quelle nude dure rocce senza un briciolo di terra.. Rifletterono su deducendo che essendo abili nuotatori, si sarebbero adattati e nutriti mangiando alghe e piccoli crostacei. Per acqua dolce avrebbero bevuto le gocce dell’umidità notturna. in quel mare formato da un arcipelago di grossi isolotti e di seminati scoglietti affioranti con la bassa marea. Per acqua dolce avrebbero bevuto le gocce formate dall’umidità notturna. L’Eolo, il bianco piroscafo a vapore che annunciava col nero denso fumo il suo arrivo fin dall’apparire all’orizzonte ogni due giorni alla settimana, era il simbolo della festa per gli abitanti i quali correvano ad attenderlo, ed al tonfo dell’ancora in acqua esultavano. Il buon tempo aveva così permesso l’operazione di sbarco ed imbarco che avveniva non molto lontano dalla scogliera tramite spola del barcone con rematori dall’aspetto forte e coraggiosa. 

Per primi venivano portati a terra i nuovi pochi eventuali parenti, poi curavano lo sbarco e il conseguente imbarco delle merci tramite i bighi di prua di bordo. Per ultimi venivano sbarcati i vitelli che , uno per volta con una larga sotto pancia di grossa tela, si vedevano volare fino a giungere sul barcone. Al termine veniva sbarcata una cella frigorifera viaggiante contente formaggi e salumi. Le medicine era una consegna personale degli ufficiali di bordo al responsabile medico. Ad aiutare lo sbarco dal barcone partecipavano tutti gli isolani. Alla fine, salpato l’ancora, salutato con un fischio partiva per raggiungere le altre isole. Al fischio tutti rispondevano agitando le braccia ricadendo in un nuovo stato di abbandono. 

Alcuni animali privatamente, con barconi, venivano trasportati a Basiluzzo, l’ ampia isoletta dalla perenne vegetazione verde, a sua volta un grande spezzone di ciò che era rimasto del cataclisma lasciando sorgere dal mare un grande ventaglio aperto verso l’alto. Dinnanzi al posto di lavoro per il porticciolo, circa a mezzo miglio marino si ergevano altri isolotti, alcuni bianchi, forse di pomice ed uno, Dattilo, tutto giallo chiaro, come fosse un miscuglio amalgamato di zolfo e calce. Erano il regno di gabbiani. A dir vero nessuno sapeva la loro razza. I primi conosciuti erano poco più grandi dei bianchi colombi. In un secondo tempo erano diventati più voluminosi e di color cenerino. 

I terzi arrivati erano molto grandi e di colore bianco con macchie nere, i quali inseguivano e lottavano in volo come fossero cannibali invasori del regno, e sparivano quando il battipalo piantantando le sagome di ferro nel fondale per delineare il futuro porticciolo faceva forti rumori. Diverso invece avveniva sott’acqua, con il martellare del battipalo sul fondale sollevava nuvole di polvere e fango, una festa inaudita posta a disposizione alle triglie ed altri pesci e pescetti, come fossero briciole di biscotti. Diverso fu per il livellamento del fondale d’appoggio per il cassone di cemento. Le grosse pietre sembravano voler giocare. Con la funzione di sommozzatore in tuta, piombi, bombole, maschera e pinne il capitano, con la volontà collaborativa di aiuto, cercò di sistemare in piano alcune ed esse si rifiutavano risollevandosi. Prova e riprova, il collega sommozzatore, si avvicinò e gli fece vedere come bloccarle. Essendo queste per metà pietra lavica e metà pomice facevano lo scherzetto, bastava porle a scaglia di pesce con una pietra più pesante sopra.

Nei giorni successivi i lavori continuarono fino a nuove sorprese: dai massetti spianati sul fondale affioravano dei cocuzzoli viventi di colore diverso. Era arrivata una invasione pacifica e forse volevano dire grazie per aver costruito loro le abitazioni. Munito di bombole ed altri aggeggi subacquei, nuotando cercò di toccarli pensando di farli andare via, ma essi con furbizia scivolando si intanavano. Da una parte il capitano era contento nel vederli, dall’atra li commiserò. Poveri polipetti, non sapranno mai a cosa vanno incontro.- Con l’affondare del cassone trainato da un rimorchiatore, sarebbero rimasti tutti schiacciati e sepolti, ameno che, intuendo il pericolo, sarebbero scappati via abbandonando tutto. Stette per avvicinarsi an uno più grosso e col piatto ferro che adoperava come leva, ripetendogli vattene, cercò di allontanarlo.

 Avesse visto come fu ubbidiente, affusolatosi schizzò via in una nuvola nera andandosi poi ad appollaiare abbracciando con i tentacoli un massetto più grosso. Il gioco continuò fin quando riuscì a convincerlo a rifugiarsi altrove. Non so se fosse tornato al suo luogo d’origine o meno, la bombola dell’aria compressa cominciava a dargli il segnale di vuoto costringendolo a risalire per la ricarica. Il fondale iniziava da due fino a giungere circa i cinque metri e chiunque in apnea, nell’ intervallo di lavoro, poteva andare a fiocinarli. Il problema non fu solo della presunta sepoltura dei polipetti con il posizionare del cassone ma della gioia delle cernie piccole e grandi che iniziarono a banchettarli con soddisfazione. E come esse, iniziarono anche le murene che non essendo tutto ancora coperto da alghe, riuscivano ad intrufolarsi serpeggiando tra i semi galleggianti massetti ponendosi alla doppia caccia. Per più di venti giorni Panarea ospitò i loro banchetti ed anche degli estranei, Tutto era semiselvaggio tranne l’alberghetto con ristorantino il quale ha facilitato il loro vivere. 

Una domenica, seguendo la stradina che conduceva verso la costa nord dell’isola con all’orizzonte l’imponente isola di Stromboli ed il paesino di Ginostra, furono invitati ad assistere ad una particolare guarigione da insolazione. Al centro della stanzetta su una sedia vi era seduto un ragazzino biondo, magro, fortemente arrossato in viso ed un piatto fondo pieno d’acqua sulla testa. -Un esorcismo?- si chiesero. Una vecchietta girava intorno al ragazzino mormorando qualcosa che non capivano. Stettero allibiti nel veder l’avvenimento. Fu spiegato loro che quando il poco olio si sarebbe espanso, l’acqua era diventata calda ed aveva effettuato la funzione di parziale raffreddamento, e quindi bisognava cambiarla per continuare a far scendere la temperatura del ragazzino. Era un sistema molto antico ma per loro ancora efficace per salvare la vita agli sventurati. Al sapere questo, sinceramente non poterono far loro che un complimento. E‘ da dire che le farmacie ed ambulatori ancora non conoscevano l’isola e le medicine essenziali richieste tramite le capitanerie di Lipari e di Milazzo , giungevano , dopo essere state consegnate al comandante del piroscafo che procedendo lentamente impiegava del tempo per raggiungerle. L’Eolo, il bianco postale prima di porsi in rotta per le isole doveva costeggiare tutto il Capo Milazzo passando a distanza dalla spiaggia di Cirucco. Qui avveniva la gara di abilità dei giovani coraggiosi, bisognava raggiungerla e darle una pacca nel ventre e scappare, malgrado dall’aletta della plancia strillassero loro il pericolo dell’elica. Con la costruzione del pontile a Panarea molte cose cambiarono in meglio e con esse anche la giovanile scommessa essendo stato cambiato il Piroscafo con due Motonavi più pratiche e veloci, agevolando il fiorire dell’isola stessa. . Mentre Panare iniziava a risvegliarsi dall’etero torpore, l’ isola di Filicudi ed ancor più di Alicudi continuarono a vivere quel torpore di fame e di isolamento ancora per lungo tempo. Un giorno, quando Panarea fu raggiunta con frequenza turisticamente, Uccia la vecchietta del frigo con lo stoppino , notò dal suo terrazzo posto sull’anfiteatro panoramico degli scogli del mare , che il silenzio da aggiunge all’armonia d’un tempo col suo lento scorrere, non era più esistente a causa del danzare notturno dei turisti e della confusione giornaliera all’arrivo delle navi.

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Negli anni del 1980 vi era a Lipari il moto pontone ‘’MP Nazarena’’, non grande nè giovane, ma faceva bene il proprio servizi nelle mansioni marine ed in particolare presso le cave di pomice con il compito di recuperare dall’ampio fondale bianco le varie catene, ferri ed ancore perse in mare dalle grosse motobarche e navi in caricazione a causa delle forti tempeste di scirocco. Il porticciolo di rifugio del Pignataro a Lipari era la sua base di appoggio notturna. Nei giorni festivi serviva da pontile appoggio alle barche a vela e piccoli cabinati. 

Si potrebbe definire : un mezzo di duplice emergenza a servizio continuo alle necessità turistiche delle Isole Eolie. Un giorno Cuzzupè, il cinquantenne responsabile della ditta armatrice messinese che alcuni mesi prima si era premurato di imbarcare il nuovo capitano, portò l’ordine di raggiungere l’isola di Panarea per inizio lavori: bisognava preparare il fondale per la successiva costruzione del molo e quindi del porticciolo. Qui il punto d’appoggio giornaliero e notturno dell’equipaggio, già prenotata, era la trattoria alberghetto Cappelli . Andati in capitaneria furono ultimate le pratiche della partenza ed assicuratisi del mare calmo e delle belle giornate date dal barometro di bordo confermando la stabilità metereologica, decisero di avviarsi. Il moto pontone non era grande, in coperta vi era la robusta gru munita di un potente motore diesel un poco longevo ma funzionante.. 

Come natante non era veloce, la prua rettangolare era un freno e riusciva con mare calmo ad andare alla velocità intorno a quattro o cinque nodi. Al primo accenno di mareggiate il porticciolo rifugio Pignataro avrebbe dato loro nuovamente ospitalità gradita. Il motore centrale addetto alla navigazione non era proprio giovane, per metterlo in moto era necessaria una leva che , inserita in uno dei fori del grosso pesante volano, riuscivano a farlo ruotare dopo aver inserito la ‘’ sigaretta’’, il bianco stoppino acceso nella camera di compressione. In caso di retromarcia bisognava spegnere ed invertire la rotazione. La grande elica era a presa diretta le manovre particolari venivano effettuate con grossi cavi tirati dai verricelli annessi al motore della gru, oppure a braccia dall’equipaggio, il quale era formato dal capitano, motorista, marinaio cuoco e due mozzi. Così di buon mattino, dopo aver fatto rifornimento viveri e liberi delle barche in appoggio, iniziarono le manovre di uscita dal Pignataro. 

Terminate le manovre, legata a traino la ‘’ lancia’’ a remi con la poppa quadra si avviarono. Superato costeggiando il promontorio di Monte Rosa, col tum, tum, tum del motore , accostati a sinistra costeggiarono la parte sud di Lipari doppiando le cave di pomice e Punta castagna ponendosi in rotta per la distante Panarea. Isola dalla forma triangolare che ad essere sinceri, essendo uno spezzone di antico ampio vulcano diroccato nel tempo dai suoi stessi terremoti, sembrava una papera stesa sull’orizzonte con la testa ed il becco verso est ed il corpo triangolare con la alta piuma della coda verso ovest, sembrava controllare tutte le piccole isolette d’attorno come fossero suoi pulcini. A poppa del pontone oltre l’ancora nella sua cubia e la barchetta, legati al capo di banda del parapetto non mancarono le lenze a traino. 

A quella lenta velocità qualche pesce avrebbe abboccato. Gli alloggi dell’equipaggio erano sottocoperta, tranne quella del capitano. Nel cassero a poppa vi erano i locali cucina, doccia e l’igienico. In un ingresso a parte vi era la scaletta per salire nella piccola plancia con timoneria, bussola magnetica ed apparecchiature per la navigazione. Nello spazio sottostante, tra paratia e scala vi era, per sicurezza, la cuccetta del capitano. Nel mettersi in rotta per raggiungere a vista Panarea, da una delle lenze un pesce d’argento iniziò a saltare. Non ebbe il tempo di svincolarsi e svignarsela che il marinaio cuoco, malgrado agitatamente, lo fece accomodare in cucina bloccandogli la saltellante contestazione. 

Un aliscafo da lontano li sorpassò ridendo e strombazzando. Così fu ripetuto dalla bianca fumante nave di linea. All’ arrivo scansando le formiche, i neri pericolosi scogli leggermente affioranti al cambio della marea, giunsero a destinazione nella spiaggetta ciottolosa dinnanzi alle caratteristiche casette ove i barbuti ormeggiatori sbracciando li guidarono. Gettata in mare da poppa l’ancora, evitarono di arenarci lanciando a sua volta le cime che prontamente furono accattivate a terra e bloccandole subito alle bitte di bordo. Per gli isolani fu una festa. Era l’inizio di ciò che avevano sempre desiderato sperando in un futuro non dico migliore ma un poco più comodo e pratico. Ancor più esultante fu allo spegnere del motore, il forte canto delle cicale. 

Malgrado ancora non fosse estate, il cicalio dette loro il benvenuto invitandoli ad ammirare l’isola. Così capitano e motorista non tardarono ad accettare. Con l’inizio dei lavori non avrebbero avuto più la possibilità di farlo. Lasciato a bordo i tre dell’equipaggio, si avviarono. Le case del paesino non erano alte né parecchie. Tutto appariva un presepio in grandezza naturale attraversato da una stradina asfaltata incrociante con altre in terra battuta. La percorsero ed essa li condusse al fiorato sagrato dell’unica chiesa. I fiori erano palloncini verdi quanto una noce da cui aprendosi venivano fuori petali violacei con in centro gli stami a croce. Erano noti i bei fiori dei capperi selvatici ed il loro conseguente frutto, ma queste piante rampicanti dal colore verde intenso non le avevano mai viste. Tutto era ordinato, un pregio dei pochi abitanti di un’isola che tirava a fatica l’orgoglio della propria esistenza. I muri a secco imbiancate con la calce con delle casette e le pulere delle terrazze, colonne che sorreggevano i pergolati utilizzati come fornitori di dolcissima uva , ombra e frescura. 

Quell’ uva che messa a seccare su canne intrecciate insieme a quella del vigneto, piante basse per sfuggire al vento, venivano trasformata in malvasia. Un vino denso come fosse oleoso dal sapore veramente divino. Ogni cosa confermava l’abilità degli isolani , uomini e donne trasformandosi in muratori , contadini, imbianchini, pescatori, costruttori e riparatore delle reti. Non vi era mestiere che non sapessero fare. Risalendo la stradina in terra battuta per giungere ai piedi della collinetta, notarono in una viletta bianca più grande quale qualcosa attrasse la loro attenzione. Dai legni che univano le pulere pendevano cenci di strani. Guardarono bene, erano totani aperti a ventaglio, spolverati di sale posti a seccare steccati con canne, poste a seccare. Sarebbero serviti come alimento nel periodo invernale di magra. Fu una sorpresa che portò alla mente del capitano l’ usanza delle famiglie dei pescatori portoghesi. Loro ponevano a stendere i polipi, e questi come foglie secche sbandieravano al soffio del vento. 

A metà cammino una botteguccia fungeva anche da bar. Entrarono. Una vecchietta sorridendo andò loro incontro e chiese cosa desiderassero. – Due aranciate fresche. - Ella li guardò e sorridendo rispose: - dovete attendere un poco. - Sganciato un lungo ferro, versò sullo stoppino posto all’estremità un poco di rosso alcol e acceso un fiammifero gli diede fuoco. Dopo aver girato una manopola, lo inserì nel retro e del mobile e con sorriso aggiunse : - Cinque minuti di pazienza, ho acceso il gas.- I due clienti si guardarono in viso e lei riprese: - Questo è un frigorifero a gas, nell’isola non c’è la corrente elettrica. Ad avere un gruppetto elettrogeno creato col motore di una cinquecento a benzina è la piccola la trattoria dove siete ospitati, ma di note, anche se silenzioso, il rumore echeggia lo stesso nel silenzio.- Alcuni minuti dopo, chiuso il rubinetto, sollevato lo sportello, trasse due aranciate. Non erano ghiacciate, ma neanche calde. Sorridendo, i due pagarono ringraziando e ripresero il cammino. Questa volta le cicale non cantarono ma risero cicalando a squarcia gola. 

Proseguirono fino ai piedi dell’altura. Apparve chiuso dall’orizzonte un panorama incantevole con a sud le altre isole tranne Stromboli che era posta a nord sul versante opposto. Guardando in basso la scogliera lo sguardo l’invito a scendere. Nell’ammirare il tutto la mente li riportò a Montefeltro, l’orizzonte azzurro che appariva dal castello di San Leo, luogo ove Cagliostro, il chimico palermitano incolpato di magia, fu prigioniero e poi morto. Di fronte vi era il monte Titano con San Marino. Grazie alla loro altezza tutto il territorio assumeva un colore azzurro marino coperto qua e la da bianche nuvole simili a marosi circondanti l’ampio orizzonte come quello che stavano ammirando adesso. Però vi era una differenza: mentre in mare le ombre fiancheggiano chi li produce, in quello montano le ombre seguivano la rotazione del sole un come le barche alle boe nelle rada di Vulcano. Giù nella costa un promontorio concavo formava una insenatura come fosse un porticciolo naturale con la spiaggetta. Sul suo altipiano vi erano sul pianoro ampi cerchi in neri muri a secco.

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In quello, al filtrare della luce dai decorati vetri, un forte vocio di bimbi echeggiò insieme al canto di una sacra messa in latino del tutto uguale a quella che udivo quando ancora ero in grembo.  

Immersa in quell'eco, appisolata sentii le mani di mia madre pormi delicatamente nella culla insieme, oltre al fungoplano ed al fratellino che continuavano a rimanere nella mia mente, a tutte quelle cose che con la fantasia avrei fatto più in là nel tempo dal giorno che sarei diventata un tantino più grande!
                                                                            FINE

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Sotto di noi era apparsa la fossa delle felci giganti. Un preistorico cratere ove si erano da secoli ambientate le antichissime piante insieme ai castagni. La tentazione di planare loro intorno fu tanta. Tirata una briglia, il fungo plano iniziò a volteggiare come fossero montagne russe. Maestoso, veramente maesto­so. Discesi verso la valle delle gobbe, questa volta senza sobbalzi, dirigemmo a nord. Una nuvola di far­falle ci avvolse. Sghignazzavano e ridevano ubriache. Volavano dopo aver fatto una scorpacciata di nettare fin a dir basta saltando da un fiore all'altro. In quelle con­dizioni, avevano scambiato i colori del fungo plano per un campo fiorito da espugnare. Guardatele bene: "Sono proprio ubriache!" esclamai. "E' come dire che hanno fatto il giro delle osterie." Ad ubriacarsi in volo erano anche i rossi moscerini che volando a gruppo, cercava­no di continuare a versare il rosso nettare d'uva da una botti­glia nei bicchieri che ormai non riuscivano più a centrare. La cosa più buffa era nel vederli spingersi volando a zig zag da una parte all'altra. Non potevo non ridere divertita. A ridere fu anche il fratellino. Girato attorno ad un ampio anfiteatro di nera roccia, il fungo plano ci portò nei pressi di un alto arco naturale di roccia che dalla rupe giungeva e si specchiava sul mare profondo.  Vi passammo sotto più volte. Volteggiammo attorno allegri come fossimo in altalena.

 Il giovanottino rideva divertito, ed io come una scenetta, ridevo seguendo la sua gioia. Ero gongolante. Abbracciatolo, lo guardai, era proprio contento. La sua gaiezza, il suo sorriso com­piaciuto si mescolavano con i suoi capelli ricci. Guardato in alto, al di sopra della gobba che d'inverno è la prima ad innevarsi, ammirò l'altissima soffice nube bianca che rifletteva i raggi del sole. Col dito me la indicò ed io l'accontentai. Con uno spie­do di legno infilzai la vaporosa nube di zucchero filato. Come fosse un gigantesco lecca, lecca , iniziammo a morderla. Lo zucchero sciogliendosi ci imbrattò appic­cicandosi al viso e alle mani. Ma ciò non distolse quella felicità che ci aveva inva­so...Alla partenza dall'isola ribollente il martin pescatore ed il gufetto ci avevano salutato. L’uno correndoci velocemente attorno col battere le ali così rapidamente da diventare invisibili. L’altro invece, rimanendo appol­laiato su un ramo, mosse pigramente l'ala dicendo: "Guu!". Finito lo zucchero filato, uno spavento mi fece sobbalzare il cuore. Mi ero appena distratta ed il moccioso era sparito. Gli avevo appena dato un bacio in fronte. Lo cercai in lungo ed in largo, pensan­do di averlo perso per sempre. "Guarda la carognetta!" esclamai. Stava nuotando beatamente insieme a giova­ni turiste sul dorso di un verde coccodrillo gonfio d'a­ria. Il fungo plano era scalpitante ed impaziente , desi­derava riprendere il volo. Attimi dopo partimmo. A gui­dare il volo non fui io ne il fratellino. Il fungo plano andò come fosse stato pilotato da una forza a me igno­ta. Volteggiammo a lungo per il cielo di Lipari, la grande isola eterogenea ricolma di coste scoscese e di storia. Ci condusse e ci lasciò scivolare sopra un bianco pendio di polvere di pomice. Rotolammo giù come palline da infarinare fin quando un tonfo ci fece rendere conto di essere arrivati in mare. Un ridere convulso chiamò la nostra attenzione, era il fungo plano che stava sbellicandosi. Rise a lungo lasciandoci ciabattare tra i nostri stessi spruzzi di nuotatori inesperti. (Fine)

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cultura

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