Stranamente è Controsenso

di Federico Lo Schiavo

Eccoci tornati con la 6ª parte di “STRANAMENTE È CONTROSENSO”.
Felice di ritrovarvi, come ogni mese, con questa rubrica che parla dei giovani, dei temi di attualità e, soprattutto, dei pochi. Di chi voce non ne ha, o se ce l’ha, viene troppo spesso ignorata.
Nel corso dei mesi abbiamo affrontato argomenti diversi, a volte scomodi, altre volte semplicemente dimenticati. Ma qualcosa si è mosso. Alcuni articoli hanno portato piccoli ma significativi passi avanti, anche qui, nelle nostre amate isole Eolie. È una soddisfazione vedere che, piano piano, si inizia a parlare, a riflettere, a dare spazio a chi troppo spesso resta invisibile.
Oggi voglio parlarvi di barriere.

Barriere fisiche, certo. Ma anche barriere culturali, sociali, mentali. Di tutte quelle disabilità che troppo spesso diventano un peso che grava sulla vita di tante persone, non tanto per la condizione in sé, quanto per l’ostilità o l’indifferenza dell’ambiente che le circonda.
Ci sono muri che non si vedono, ma che pesano come macigni.
Sono gradini troppo alti, marciapiedi inaccessibili, porte strette che sembrano sussurrare: “Tu qui non puoi entrare”.

Sono barriere architettoniche, sì, ma anche culturali. Perché dietro ogni ostacolo fisico c’è una scelta. C’è una dimenticanza. C’è, spesso, una distrazione che si trasforma in esclusione.
Perché chi progetta, chi costruisce, chi decide... ha quasi sempre due gambe con cui muoversi. E spesso si dimentica di chi cammina in modo diverso, o non cammina affatto. Di chi sente il mondo in un altro modo. Di chi ha bisogno di un po' di spazio in più per vivere pienamente.
Vivere con una disabilità non significa vivere “a metà”.
Significa vivere in un mondo che non è stato pensato per tutti.

Ogni volta che una persona in sedia a rotelle non può entrare in un edificio, ogni volta che un non vedente non trova un percorso tattile, ogni volta che un cane da assistenza non ha la possibilità di entrare in un luogo pubblico... è lì che capiamo che la disabilità, il più delle volte, non è nella persona. È nel contesto.
È fuori, non dentro.
Abbattere le barriere architettoniche non è solo una questione di cemento, rampe o ascensori.
È un atto di civiltà.
È giustizia, non gentilezza.

È riconoscere che l’accessibilità è un diritto, non un favore.
È dare voce, spazio e rispetto a chi è stato troppo a lungo messo da parte.
Ogni rampa costruita è un ponte verso una società più giusta.
Un modo per dire: “Io ti vedo. E voglio che tu abbia il tuo posto nel mondo.”
In fondo, l’unica vera disabilità è l’indifferenza.
E contro quella, non bastano rampe.

Contro quella, serve cuore. Serve ascolto. Serve il coraggio di cambiare prospettiva.
Perché l’inclusione non si misura in centimetri di larghezza delle porte, ma nella capacità di una comunità di accogliere tutti, con dignità e rispetto.
E finché anche una sola persona si sentirà esclusa per com’è, avremo ancora molto da fare.
Ma tutto può cominciare da qui. Da una domanda semplice: “E se fosse toccato a me?”
Ps: Ti sono vicino, non farli vincere, tu sei più forte!

Categoria
cultura

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