Cassazione (e non solo) e sentenze... Strisce pedonali

Investito fuori dalle strisce: «Ha il 75% della colpa, paghi le spese legali»
Secondo la Corte il pedone in questi casi deve tenere un comportamento vigile e prudente
Attraversa fuori fdalle strisce pedonali, impugna il risarcimento “insufficiente” fino in Cassazione per vedersi condannato a rifondere anche le spese processuali: è stata (soprattutto) colpa sua. A statuirlo è la terza sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 26670/2025.

La vicenda e l’orientamento dei giudici
La Suprema Corte, infatti, ricorda che chi attraversa una strada in un punto sprovvisto della segnaletica stradale deve farlo con cautela, così da evitare situazioni di pericolo per sé stessi o per gli altri, e dando la precedenza ai veicoli.

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A pochi giorni dall’avvio del censimento degli autovelox presenti sulle strade italiane, a seguito del decreto direttoriale 305 del 18 agosto 2025 del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, la Cassazione torna a ribadire il suo orientamento sul tema. Ossia che non è sufficiente l’approvazione degli autovelox per accertare validamente il superamento dei limiti di velocità, ma è necessaria l’omologazione degli apparecchi stessi.
Con l’ordinanza 26521/25 pubblicata il 1° ottobre 2025, la Cassazione ha confermato il principio consolidato quasi 18 mesi fa con l’ordinanza 10505 del 18 aprile 2024 che ha segnato un punto di svolta per i ricorsi degli automobilisti. Per essere considerato a norma, e quindi per poter legittimamente sanzionare gli eccessi di velocità, un dispositivo di rilevamento elettronico deve essere omologato.
L’ultimo caso in ordine cronologico, su cui si è espressa la Cassazione, riguarda un automobilista a cui era stata comminata una multa perché guidava a una velocità di 88,40 km orari quando il limite di velocità prescritto era di 70 km/h. Nel contestare la sanzione, l’automobilista aveva fatto ricorso in appello perché il giudice di pace aveva dato ragione al Comune che aveva accertato l’infrazione. Il Tribunale di Pescara aveva confermato la posizione del giudice di pace, sostenendo che l’accertamento fosse legittimo poiché l’apparecchio elettronico, pur non essendo omologato, era stato regolarmente approvato dal Mit. L’interpretazione del Tribunale si è basata sull’articolo 192 del regolamento del Codice della strada, secondo la quale la più rigorosa omologazione sarebbe necessaria solo per dispositivi con caratteristiche fondamentali o prescrizioni particolari imposte dal regolamento stesso. Per tutti gli altri apparecchi, sarebbe invece sufficiente la semplice approvazione.
Interpretazione rigettata dalla Cassazione, a cui l’automobilista si era rivolto in ultima istanza, proprio perché, secondo gli Ermellini, non sussiste l’equipollenza fra approvazione e omologazione, come già ribadito ad aprile 2024. Il procedimento di approvazione costituisce, infatti, un passaggio preliminare, dotato di una propria autonomia, ma che serve come base per poter poi procedere alla successiva omologazione che è frutto di un’attività distinta e consequenziale.
La nuova ordinanza della Cassazione corre parallela all’avvio dell’archivio centralizzato, pubblico e ufficiale degli autovelox, generando una situazione che rischia di alimentare la confusione degli automobilisti. Come da indicazioni del Mit, Polizia Stradale, Carabinieri, Comuni e Province hanno sessanta giorni per inserire i dati dei propri dispositivi sulla piattaforma telematica del Mit e poter, quindi, usare legittimamente i rilevatori di velocità presenti sul territorio. Dal 1° dicembre, chi non avesse comunicato le informazioni richieste non potrà utilizzare gli apparecchi e non potrà, di conseguenza, comminare multe e riscuoterne il corrispettivo.
L’iniziativa del Ministero, pur facendo un passo avanti in tema di trasparenza e sicurezza, obbligando amministrazioni e forze dell’ordine a una mappatura capillare degli autovelox presenti in Italia, lascia irrisolto il nodo dell’omologazione. Così c’è il rischio che continuino i ricorsi da parte degli automobilisti che vorranno contestare le multe e le conseguenti decurtazioni dei punti sulla patente per eccesso di velocità.

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Nuova sanatoria edilizia, in arrivo una sanatoria semplificata per abusi con più di 60 anni: ecco la nuova Riforma
Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti prepara una trasformazione totale del Testo Unico dell'Edilizia, con sanatorie semplificate e l'abolizione parziale della temuta doppia conformità. Un intervento che potrebbe sbloccare pratiche ferme da decenni e restituire valore a un patrimonio immobiliare immenso. Ecco chi riguarda

Il cuore della riforma risiede nell'introduzione di una data spartiacque rivoluzionaria: il 1° settembre 1967. Questa scelta corrisponde all'entrata in vigore della cosiddetta "Legge Ponte" (Legge n. 765/1967), un momento storico che ha segnato l'evoluzione della normativa urbanistica italiana. Da questo momento in avanti, tutti gli abusi edilizi realizzati prima di quella data potranno essere sanati attraverso procedure drasticamente semplificate.
L'impatto di questa decisione è destinato a essere di portata epocale per il mercato immobiliare italiano. Milioni di edifici, spesso bloccati da piccole irregolarità documentali o costruttive che ne impedivano la vendita o la valorizzazione, potrebbero finalmente vedere risolte le proprie problematiche. Il Ministero delle Infrastrutture ha, infatti, compreso che gran parte del patrimonio immobiliare nazionale è fermo a causa di incongruenze edilizie ormai datate decenni, che non hanno più ragione di persistere come ostacoli burocratici.

Parallelamente, la riforma promette di ridefinire o superare il principio della doppia conformità, quel vincolo che ha rappresentato per anni un vero e proprio incubo per proprietari e tecnici. Questo meccanismo, che impone il rispetto delle normative sia al momento della realizzazione dell'abuso, sia al momento della richiesta di sanatoria, ha spesso reso impossibile regolarizzare anche le più piccole difformità. Con la nuova normativa, gli abusi più vecchi potranno beneficiare di un approccio completamente diverso, più pragmatico e orientato alla soluzione piuttosto che all'ostacolo.
Burocrazia addio: la rivoluzione dei tempi certi

La seconda grande direttrice dell'intervento ministeriale punta a demolire le barriere burocratiche che hanno paralizzato il settore edilizio per decenni. Il disegno di legge delega introduce un sistema basato su termini certi e perentori per ogni procedimento amministrativo, eliminando l'incertezza dei tempi infiniti che hanno caratterizzato la pubblica amministrazione italiana.
Il silenzio assenso diventerà la regola, non l'eccezione. Se un ufficio pubblico non fornisce risposta entro i termini stabiliti dalla legge, l'istanza del cittadino si considererà automaticamente approvata. Tale svolta rappresenta un cambio di paradigma fondamentale: dalla logica del controllo preventivo si passa a quella della responsabilizzazione dei professionisti attraverso autocertificazioni e asseverazioni tecniche.
Accanto al silenzio assenso, verrà potenziato il "silenzio devolutivo", un meccanismo di garanzia che trasferisce la competenza a un'altra amministrazione qualora l'ufficio competente rimanga inerte. Questo doppio livello di protezione assicura che nessuna pratica possa rimanere bloccata indefinitamente negli ingranaggi della burocrazia. Il riordino dei titoli edilizi ridefinirà chiaramente i campi di applicazione di Cila, Scia e permesso di costruire, eliminando le sovrapposizioni e i dubbi interpretativi che hanno generato contenziosi e ritardi.
Il fascicolo digitale sarà la carta d'identità dell'immobile
La terza rivoluzione annunciata dalla riforma riguarda la completa digitalizzazione del patrimonio edilizio nazionale. Il progetto più ambizioso prevede la creazione del "fascicolo del fabbricato", una sorta di carta d'identità digitale che accompagnerà ogni immobile dalla sua nascita fino a tutte le successive modifiche.
Questo strumento tecnologico ricostruirà automaticamente la storia completa di ogni edificio: dai permessi di costruzione originali a tutte le ristrutturazioni, dalle modifiche strutturali agli aggiornamenti catastali. Il fascicolo digitale rappresenta una svolta epocale per la trasparenza del mercato immobiliare, eliminando le incertezze che spesso accompagnano compravendite e verifiche di conformità.
La riforma stabilisce, inoltre, il diritto dei cittadini a non vedersi richiedere documenti già in possesso della pubblica amministrazione. L'interoperabilità delle banche dati pubbliche permetterà alle informazioni di circolare fluidamente tra i diversi uffici, eliminando duplicazioni e perdite di tempo. Ogni pratica edilizia avrà come punto di riferimento uno sportello unico che coordinerà i rapporti con tutte le amministrazioni coinvolte, semplificando l'iter burocratico per cittadini e professionisti.

L’iter di approvazione
Il percorso legislativo della riforma è ormai avviato e il disegno di legge delega si prepara ad arrivare sul tavolo del Consiglio dei Ministri per la prima approvazione ufficiale. Come specificato dal Ministero delle Infrastrutture, si tratta del primo passo di un iter complesso, che richiederà successivi decreti delegati per entrare nel dettaglio operativo di ogni singola misura.
L'ambizione della riforma va ben oltre la semplice revisione del Testo unico edilizia e toccherà anche materie strategiche come la rigenerazione urbana e la semplificazione delle procedure di demolizione e ricostruzione. Questi interventi sono considerati fondamentali per il rinnovamento del patrimonio edilizio nazionale e per l'allineamento dell'Italia agli standard di efficienza delle amministrazioni europee più avanzate.

Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, presentando la riforma, ha sottolineato come l'intervento sia frutto di mesi di consultazione pubblica con professionisti, imprese e rappresentanti dei cittadini. L'obiettivo dichiarato è restituire certezze a un settore paralizzato da decenni di stratificazioni normative e procedure infinite, aprendo finalmente una stagione di maggiore fluidità e prevedibilità per tutti gli attori del mercato immobiliare italiano.

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Frazionamento artificioso e secondo condono edilizio: la Cassazione conferma la demolizione
Illegittimo il frazionamento artificioso volto a eludere i limiti volumetrici imposti dal secondo condono edilizio. Confermata la validità dell’ordine di demolizione, efficace anche verso gli aventi causa 
   
Un immobile può essere frazionato in più unità per presentare separate istanze di condono? E le eventuali concessioni in sanatoria rilasciate dal Comune, poi annullate in autotutela, possono impedire l’esecuzione della demolizione ordinata dal giudice penale? Infine, quale valore assumono le pronunce della giustizia amministrativa rispetto al potere-dovere del giudice dell’esecuzione?
Domande tutt’altro che astratte, perché trovano una risposta concreta nella vicenda esaminata dalla Corte di Cassazione con la sentenza 8 settembre 2025, n. 30419, che ha riguardato un fabbricato oggetto di doppia istanza di sanatoria presentata per eludere i limiti del secondo condono edilizio.
Frazionamento artificioso e Secondo Condono Edilizio: la Cassazione conferma la demolizione
La vicenda trae origine da un fabbricato a due livelli, per il quale erano state presentate da due fratelli due distinte domande di condono ai sensi dell’art. 39 della legge n. 724/1994 (secondo condono edilizio).
Il Comune aveva inizialmente rilasciato due concessioni in sanatoria, salvo poi annullarle dopo aver accertato che il frazionamento delle richieste era meramente strumentale ad aggirare i limiti volumetrici consentiti. Il Giudice dell’esecuzione aveva quindi rigettato l’istanza di sospensione e revoca dell’ordine di demolizione, motivo per cui i ricorrenti hanno adito la Corte di Cassazione, invocando la buona fede nell’acquisto del bene e l’autonomia dei titoli catastali.

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Stipendi Pa, aumenti automatici a 311mila euro solo per pochi (per ora)
La sentenza 135/2025 con cui la Corte costituzionale a luglio ha dichiarato l’illegittimità del tetto a 255mila euro per le retribuzioni pubbliche ha un effetto immediato solo su chi avrebbe superato per meccanismi automatici la soglia
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di Gianni Trovati
La sentenza 135/2025 con cui la Corte costituzionale a luglio ha dichiarato l’illegittimità del tetto a 255mila euro per le retribuzioni pubbliche ha un effetto immediato solo su chi avrebbe superato per meccanismi automatici la soglia. Per gli altri dirigenti, al momento, le retribuzioni rimangono invariate: il tetto attuale, riportato in vita dalla Consulta, è a 312mila euro, l’ultimo limite del primo presidente della Corte di Cassazione ora in via di indicizzazione verso i 360mila euro.

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Impugnata la legge regionale n. 2/2022.

La legge regionale n. 2 del 2022 modifica numerose disposizioni della l.r. n. 16 del 2016 e della l.r. n. 6 del 2010 già oggetto di modifiche apportate dalla legge regionale n. 23 del 2021, nei cui confronti il Governo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con decisione del Consiglio dei Ministri del 7 ottobre 2021.

Secondo il CdM, la legge regionale n. 2/2022 “eccederebbe dalle competenze statutarie della Regione Siciliana, presentando profili di illegittimità costituzionale” risultando censurabili le seguenti disposizioni:

a) Articolo 1, comma 1, lettera d), lettera e), lettera g), lettera h)

b) Articolo 1, comma 2,  lettera e)

c) Articolo 2, comma 1, lettera a),  lettera b), lettera c)

d) Articolo 8, comma 1, lettera a),  lettera b), lettera d).

Di seguito si riporta il testo il testa della delibera.
1. Articolo 1, comma 1:
– lettera d): la disposizione modifica l’art. 3, co.1, lett. m), della L.R. n. 16 del 2016 come modificato da ultimo con l’articolo 4 della l.r. n. 23 del 2021 recante disposizioni per gli interventi di attività edilizia libera o subordinati a comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA). La previsione regionale amplia l’elenco degli interventi assentibili rispetto alla elencazione contenuta nel d.P.R. n. 380 del 2001 (Testo Unico dell’Edilizia), sopprimendo il riferimento ai “vasconi in terra battuta per usi irrigui”, ma lasciando incluse nell’ambito dell’attività edilizia libera“ le cisterne e le opere connesse interrate”.

– Alla lettera e), si modifica la lettera p) del co. 1, dell’art. 3 della L.R. n. 16 del 2016. In base alla modifica introdotta è esclusa dall’attività edilizia libera la nuova costruzione di muri a secco con altezza massima di 1,50 metri. Nondimeno, permangono assoggettate a tale regime le opere di ricostruzione e ripristino di muri a secco con altezza massima di 1,50 metri.
– Alla lettera g), si modifica la lettera aa) del co. 1, dell’art. 3 della L.R. n. 16 del 2016. Attraverso tale modifica si prevede che l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili al di fuori dei centri storici sia realizzabile senza titolo abilitativo purché non alterino la volumetria complessiva e l’aspetto esteriore degli edifici.
– la lettera h), sostituisce la lettera af) del co 1, dell’art. 3 della L.R. n. 16 del 2016. Mediante la nuova disposizione si inquadra nell’attività edilizia libera la “collocazione di piscine pertinenziali prefabbricate fuori terra, realizzate con materiali amovibili, di dimensioni non superiori al 20 per cento del volume dell’edificio e comunque di volumetria non superiore a 90 mc.”.
Al riguardo, occorre evidenziare che la lett. e. 6) del co. 1, dell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, annovera tra gli interventi di nuova costruzione: “gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale”.
Pertanto, ragionando a contrario, sono da annoverare tra gli interventi di ristrutturazione edilizia, e quindi nel perimetro applicativo dell’art. 10, co. 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, realizzabili con SCIA alternativa al permesso di costruire, gli interventi pertinenziali che comportino la realizzazione di un volume NON superiore al 20% del volume dell’edificio principale.
Nella sentenza 09.09.2020 n. 3730, il TAR Campania-Napoli, Sez. III, ha precisato che: “13….La giurisprudenza amministrativa è pacificamente orientata nel definire la nozione di “pertinenza urbanistica” in senso più ristretto rispetto a quella civilistica (art. 817 c.c.).
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, da un punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne risulti possibile una diversa destinazione economica.
Detto diversamente, la dimensione più o meno ampia del manufatto va valutata in ragione di detta funzionalità a prescindere dal rapporto tra i volumi, sia perché non avrebbe senso porre questa differenziazione se il concetto di “pertinenza” corrispondesse automaticamente a “modesta dimensione” e “modesta dimensione” corrispondesse a volume inferiore al 20% del volume dell’edificio cui la pertinenza accede, sia perché così non avrebbe senso la stessa lettera e.6), che ammette l’esistenza di opere pertinenziali di grandi dimensioni.
Inoltre, nel caso delle piscine, è evidente che la valutazione dell’ampiezza tiene conto soprattutto della superficie visibile, non del volume, nonché delle attrezzature di contorno e quindi dell’uso più o meno autonomo che di essa possa farsene…”.
Orbene, anche alla luce del sopra menzionato orientamento del giudice amministrativo, si rappresenta che le modifiche apportate non consentono di ritenere superate le censure già formulate in relazione all’articolo 4 delle legge regionale n. 23 del 2021.
2. articolo 1, comma 2, in materia di interventi subordinati a CILA ( comunicazione inizio lavori asseverata)
– Alla lettera c), si modifica la lettera i), del comma 2, dell’art. 3, della L.R. n. 16 del 2016. In base alla modifica introdotta è esclusa dalle opere realizzabili con CILA la nuova costruzione di muri a secco con altezza compresa tra m. 1,50 e m. 1,70. Nondimeno, permangono assoggettate a tale regime le opere di ricostruzione e ripristino di muri a secco con altezza compresa tra m. 1,50 e m. 1,70.
– Alla lettera e), si sostituisce la lettera p), del comma 2, dell’art. 3, della L.R. n. 16 del 2016.

3 L’articolo 2, comma 1 apporta modifiche all’art. 5, co. 1, della L.R. n. 16 del 2016, come modificato dall’articolo 6 della legge regionale n. 23 del 2021 impugnato dal Governo .
– Alla lettera a), si modifica la lettera d), punto 1). Di seguito si riporta il testo della disposizione in parola con in maiuscolo le modifiche apportate dall’articolo in– Alla lettera c

La nuova disposizione prevede quanto segue:
“4. Gli interventi riguardano edifici legittimamente realizzati; sono esclusi gli immobili che hanno usufruito di condono edilizio.”.
alle quali lo ius variandi della Regione è contenuto e deve attenersi alla ratio delle valutazione del singolo contesto territoriale.

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Confermato il reato di violazione dei sigilli a chi assolto rientra nell’immobile non dissequestrato

La Cassazione opta per l’orientamento che ritiene necessario al fine della perdita di efficacia del sigillo il formale provvedimento di dissequestro del bene che comunque la persona assolta può domandare in sede di esecuzione
 
Commette il reato previsto dall’articolo 349 del Codice penale colui che assolto dall’imputazione di reato edilizio rimuova i sigilli apposti al manufatto abusivo prima che intervenga il provvedimento di dissequestro.

Ossia il sigillo che punta all’immutatio locis mantiene la sua efficacia in base al sequestro disposto - anche nel caso di quello probatorio - se il procedimento penale è ormai concluso.

Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 30906/2025 - ha dichiarato inammissibile il ricorso contro la condanna comminata per la violazione dei sigilli (reato contro la pubblica amministrazione). Inoltre, al ricorrente era stato contestato il reato nella forma aggravata dall’essere custode del bene. La Cassazione - anche contro il parere del procuratore generale che propendeva per l’annullamento senza rinvio - ha confermato la responsabilità penale ex articolo 349 del Cp del ricorrente che aveva rimosso i sigilli dopo l’assoluzione per prescrizione ma senza domandare al giudice dell’esecuzione il dissequestro dell’abuso edilizio inizialmente contestatogli. Il ricorrente rivendicava la propria buona fede e lamentava il vizio della sentenza di condanna che non aveva appunto valutato la sussistenza dell’elemento soggettivo nella commissione del reato consistito nella fisica rimozione dei sigilli finalizzata a rifinire e utilizzare l’immobile con destinazione commerciale.

Il ricorso di fatto fa rilevare l’esistenza di elementi di conflitto in giurisprudenza sulla rilevanza del provvedimento di dissequestro al fine di affermare la definitiva perdita di efficacia dei sigilli apposti e rimossi senza attendere la concreta attività materiale di rimozione a opera dei soggetti delegati dal giudice.

Dalle conclusioni della sentenza emerge che è fuori discussione il permanere dell’efficacia dei sigilli se il bene non è dissequestrato mentre permangono legittimi dubbi nel caso in cui venuto meno il reato permanga formalmente il provvedimento di sequestro ormai privo della propria funzione giustificatrice.

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Patrocinio infedele, non è reato la condotta illecita dell’avvocato al di fuori del processo
La previa instaurazione di un procedimento è elemento costitutivo del delitto che non è imputabile al professionista inerte che si trattiene l’acconto sul compenso
L’avvocato che resti inerte dopo aver ricevuto mandato ad agire in giudizio non commette reato di patrocinio infedele in quanto la sua condotta per essere penalmente rilevante deve compiersi dinanzi all’autorità giudiziaria. Quindi, all’interno del processo. In assenza della pendenza di un procedimento non c’è il reato anche se l’avvocato abbia già incassato l’acconto sul compenso. E quest’ultima circostanza non integra il reato di truffa per il solo mantenimento presso di sè dell’anticipo, in mancanza di artifici e raggiri messi in atto nei confronti dei clienti non assistiti con la dovuta professionalità.

Per tali motivi la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 30567/2025 - ha accolto con annullamento senza rinvio il ricorso dell’avvocato contro la conferma della sua responsabilità per infedele patrocinio, esclusa invece perché il fatto non sussiste. Mentre per quanto attiene al reato di truffa questo era stato già escluso dalla Corte di appello in riforma della decisione di primo grado.

Il ricorrente aveva ricevuto mandato a proporre diverse azioni in materia civile e amministrativa ed era stato accusato dalle parti civili di non aver azionato alcun procedimento o di aver lasciato prescrivere i loro diritti con azioni tardive. La responsabilità penale del professionista non poteva però essere ritenuta esistente in quanto il reato contestato di patrocinio infedele ha tra i propri elementi costitutivi quello della previa instaurazione di un procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria. È di conseguenza irrilevante ai fini penali l’attività preliminare all’inizio di un procedimento in cui il difensore è parte o a esso estranea in quanto connessa a fase non contenziosa.

In conclusione, ai fini del reato di patrocinio infedele va dato rilievo alla condotta del patrocinatore contraria ai suoi doveri professionali che arrechi nocumento agli interessi della parte da lui difesa (assistita o rappresentata), ma dinanzi all’autorità giudiziaria (rectius, nell’ambito di un procedimento giurisdizionale).

La sentenza di legittimità, escluso il reato, accoglie anche il motivo sull’insussistenza del danno. In quanto anche quest’ultimo è presupposto del reato, in base al principio consolidato secondo cui il delitto di patrocinio infedele non è integrato dalla sola violazione dei doveri professionali, occorrendo anche la verificazione di un nocumento agli interessi della parte, che può essere costituito dal mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero da situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione.

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Pedinato dall’azienda durante il permesso da legge 104: il Tribunale di Venezia annulla il licenziamento

La sentenza ha dichiarato illegittime e discriminatorie le azioni del datore di lavoro. Il lavoratore con disabilità può utilizzare i permessi anche per esigenze di integrazione familiare o sociale

Pedinato durante i permessi per suffragare un sospetto del datore di lavoro. Poi licenziato con l’accusa di aver usato alcune ore di permesso per svolgere un’attività diversa in un’agenzia assicurativa. È quanto è accaduto a un uomo di Chioggia, dipendente di un minimarket, licenziato nell’aprile 2024. Il lavoratore ha una grave disabilità certifica ed è titolare dei permessi previsti dalla normativa 104/1992.

Il datore di lavoro sospettava che l’uomo usasse i permessi per svolgere un’altra attività. Per verificare l’intuizione l’azienda ha incaricato un investigatore privato di seguirlo, documentando gli spostamenti anche al di fuori dell’orario lavorativo. Il lavoratore ha, poi impugnato il licenziamento definendolo ingiusto e discriminatorio. La causa è stata decisa dalla sezione Lavoro del Tribunale di Venezia, che ha accolto integralmente il ricorso.

La sentenza chiarisce due punti della vicenda: i limiti ai controlli e l’illegittimità dei pedinamenti. “Il ricorso a un’agenzia investigativa è ammesso solo per verificare sospetti concreti, oggettivi e specifici” non per accertamenti. Giudicati, quindi illegittimi, i pedinamenti subiti dall’uomo e l’inutilizzabilità delle prove ottenute. Secondo la decisione del tribunale, l’uso dei permessi 104 non è limitato alla sola sfera domestica ma anche “per esigenze di integrazione familiare o sociale”.

Dal fascicolo emerge, attraverso la testimonianza di un amico dell’uomo, come il dipendente andasse da lui, negli uffici dell’assicurazione, per trascorrere qualche ora in un ambiente sereno. Partendo dall’illegittimità dei controlli, la giudice non ha valutato eventuali attività svolte durante i permessi. Il recesso è stato valutato discriminatorio, poiché legato alla fruizione dei permessi ex legge 104/1992. E’ stato, quindi annullato il licenziamento e ordinata la reintegrazione del dipendente. Inoltre è stato disposto il pagamento degli stipendi mancanti nel periodo dell’allontanamento, e il rimborso delle spese

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Abusi, anche il seminterrato nel calcolo del limite volumetrico Lo ricorda il Tar Lazio bocciando il ricorso di un proprietario

Nel caso di sanatoria di un’opera a più livelli, nel calcolo relativo al requisito dimensionale massimo dell’opera abusiva (pari a 750 metri cubi) rientrano tutte le parti dell’edificio, anche quelle edificate al di sotto del piano stradale. È quanto emerge dalla sentenza n. 15734/2025 pronunciata dal Tar del Lazio in merito al ricorso di una persona che chiedeva il condono di una struttura.

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Agevolazione prima casa con l’immobile inidoneo
L’acquisto precedente con il beneficio fiscale impedisce una nuova fruizione. Chi non ha usato lo sconto può sfruttarlo anche nello stesso Comune
Se una persona fisica già è proprietaria di un’abitazione «per qualsiasi ragione» non idonea a essere abitata (la cosiddetta «casa preposseduta»), ovunque questa casa preposseduta sia ubicata, e perciò intenda acquistare un’altra abitazione, la casa preposseduta inidonea:
impedisce l’avvalimento dell’agevolazione prima casa se è stata acquistata con l’agevolazione prima casa;

non impedisce l’agevolazione se non è stata acquistata con l’agevolazione prima casa, anche se la casa preposseduta nello stesso comune.

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Il contribuente deve vigilare sull’invio della dichiarazione dei redditi
Non basta incaricare il professionista: occorre anche controllare che il modello sia effettivamente spedito all’agenzia delle Entrate
di Anna Mulassano

È compito del contribuente verificare che il commercialista incaricato trasmetta correttamente in via telematica la dichiarazione dei redditi all’agenzia delle Entrate. Lo ribadisce la sezione tributaria della Corte di cassazione con l’ordinanza 22742/2025, depositata ieri.

La Corte di cassazione, infatti, ha ritenuto fondato il ricorso dell’agenzia delle Entrate contro un contribuente per indebita compensazione orizzontale. Il contribuente aveva ricevuto un avviso di recupero, che aveva impugnato in primo grado dove era stato accolto il ricorso solo nella parte relativa alle sanzioni, ritenute indebite. In secondo grado, dopo il ricorso dell’agenzia delle Entrate relativamente alla parte a essa sfavorevole, era stata confermata la non debenza delle sanzioni per il contribuente. L’Agenzia aveva così fatto ricorso in Cassazione, facendo leva sulla giurisprudenza di legittimità per la responsabilità penale del contribuente.

In primo luogo, l’ordinanza sottolinea che, in caso di sanzioni per violazioni tributarie, l’onere della prova di assenza di colpa grava sul contribuente. Si ricorda poi il principio giurisprudenziale secondo il quale il contribuente risponde «per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte del professionista incaricato della relativa trasmissione telematica ove non dimostri di aver vigilato su quest’ultimo». La Cassazione estende, quindi, il principio anche al caso in esame, ovvero l’indebita compensazione orizzontale commessa da professionisti incaricati dell’esecuzione di adempimenti fiscali. Pur in assenza dell’elemento soggettivo, si esclude la responsabilità del contribuente solo quando si dimostri che il professionista incaricato, con atteggiamento fraudolento, abbia agito al fine di nascondere la propria negligenza.

 

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E' possibile rinunciare alla proprietà immobiliare?
La volontà di rinunciare alla proprietà o ad altri diritti reali su un bene può dipendere, oltre che da motivi fiscali, anche dall'assenza di interesse e dallo scarso valore assunto dal bene nel corso del tempo. In un contesto di crisi economica, essere titolari di un diritto di proprietà su un immobile può essere particolarmente oneroso e pertanto la rinuncia può essere una scelta opportuna per evitare il pagamento di tasse o spese di manutenzione e gestione.

In caso di rinuncia alla proprietà immobiliare, il bene viene ceduto allo Stato con l’effetto di trasferire i costi di gestione a quest'ultimo. L’atto di rinuncia è generalmente ritenuto ammissibile, ma deve essere compiuto con le dovute cautele.

Due sono le situazioni in cui ci si può trovare:
la rinuncia della comproprietà di un bene in comunione;
la rinuncia di un immobile di cui si è unico proprietario. 
Rinuncia alla comproprietà di un bene in comunione

Nel caso in cui si voglia rinunciare a un bene che appartiene in comunione a più soggetti e si voglia dunque rinunciare alla propria quota, alla rinuncia non segue l’acquisto della quota da parte dello Stato, ma si verificherà l’incremento delle quote degli altri comproprietari del bene. L’espansione del diritto di proprietà si avrà anche senza il consenso degli altri comproprietari e non potranno opporsi all'accrescimento della parte di loro spettanza.

Qualora gli altri comproprietari non abbiano interesse a tale acquisizione, gli stessi potranno unicamente rinunciare all’intera quota accresciuta. Se il bene dovesse rimane in capo ad uno soltanto dei proprietari, questi potrà rinunciare a sua volta in favore dello Stato.

Rinuncia alla proprietà di immobile di cui si è unico proprietario. In caso di unico proprietario, la rinuncia alla proprietà di un bene immobile comporta il passaggio del diritto in favore dello Stato. La legge non prevede espressamente che il proprietario di un immobile o un terreno possa rinunciare alla sua proprietà.
Tuttavia, tale possibilità si deduce in base a quanto disposto dall'articolo 827 del codice civile, ai sensi del quale i beni immobili, che non sono di proprietà di alcuno, spettano al patrimonio dello Stato che dunque diviene proprietario dei beni vacanti.

Eccezioni alla possibilità di rinuncia. Se in linea di principio la rinuncia alla proprietà immobiliare è ritenuta ammissibile, è necessario evidenziare che vi sono delle eccezioni, in presenza di determinate circostanze.

A tal proposito si ritiene generalmente non ammissibile un atto unilaterale di rinuncia della proprietà di un bene immobile compiuto con il solo scopo egoistico di trasferire sull’Erario i costi necessari per effettuare opere di consolidamento, manutenzione o demolizione o bonifica, con aggravio per l’intera collettività.

Più nello specifico, se è un diritto del proprietario quello di liberarsi della proprietà trasferendo il bene non più voluto allo Stato, dall’altro, la rinuncia potrebbe essere nulla qualora l’atto sia compiuto esclusivamente con lo scopo di liberarsi di terreni che presentano evidenti problemi di dissesto idrogeologico, di edifici che devono essere abbattui vista la loro inutilizzabilità, di terreni inquinati in riferimento ai quali non si vuole sostenere spese di bonifica.
Pertanto, la possibilità di procedere alla rinuncia dovrà essere attentamente vagliata da un professionista esperto in materia.

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Le sanzioni tributarie sono personali e in caso di morte non si trasmettono agli eredi
Una volta che sia documentato il decesso del destinatario delle sanzioni cessa la materia del contendere.

Le sanzioni tributarie sono personali e possono riferirsi solo al contribuente e quindi nel caso in cui quest’ultimo deceda viene a cessare la materia del contendere proprio per la loro intrasmissibilità agli eredi. 

Lo chiarisce la Cassazione con l’ordinanza n. 22476/25

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Permesso di costruire, il Comune è sempre responsabile dei danni
Consiglio di Stato: il risarcimento è dovuto anche se il permesso è stato rilasciato con la clausola ‘fatti salvi i diritti dei terzi’

- Il Comune che rilascia un titolo abilitativo è sempre responsabile degli eventuali danni causati, anche se il permesso riporta la clausola “fatti salvi i diritti dei terzi”. Lo ha spiegato il Consiglio di Stato con la sentenza 5475/2017.

Autorizzazione e sanatoria
Nel caso preso in esame, il proprietario di un’abitazione aveva richiesto un’autorizzazione edilizia per realizzare sul lastrico solare del proprio edificio una tettoia in legno con copertura a canniccio. Il Comune in un primo momento aveva negato il permesso di costruire, ma in seguito lo aveva rilasciato.

I proprietari dell’abitazione vicina, posta ad un livello più basso, avevano in seguito lamentato che la tettoia provocava loro un danno, cioè la diminuzione di valore dell’immobile per compromissione della veduta panoramica sul lido e sul mare.

Sulla base di queste considerazioni, il Comune aveva annullato il permesso ed emesso l’ordine di demolizione. L’abbattimento non era stato però realizzato perché la Procura aveva sequestrato tutta la documentazione relativa alla pratica edilizia.

Nel frattempo, grazie al condono edilizio voluto con il DL 269/2003, la tettoia era stata regolarizzata.

Sempre possibile chiedere il risarcimento
Il vicino, che aveva lamentato la compromissione della veduta, aveva chiesto al Comune un risarcimento a causa della diminuzione del valore di mercato dell’immobile.

Secondo il Comune, dato che il permesso di costruire era stato rilasciato con la clausola “fatti salvi i diritti dei terzi”, il vicino avrebbe potuto far valere i propri diritti e non poteva quindi chiedere un risarcimento.

A detta del vicino, invece, il Comune era colpevole di inerzia. Se non avesse commesso dei ritardi nella sua attività, la demolizione sarebbe andata a buon fine prima dell’arrivo del condono.

I giudici hanno concluso che non hanno importanza le clausole e le diciture con cui è rilasciato il permesso di costruire. L’Amministrazione è sempre responsabile se, con la sua condotta, lede un diritto dominicale. Il CdS ha quindi disposto la quantificazione del risarcimento.

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La Corte di Cassazione ha recentemente emesso diverse sentenze significative in ambito penale e civile. In materia penale, il 28 agosto 2025 è stata confermata la procedibilità a querela per il reato di disturbo della quiete pubblica, con l’applicazione del favor rei in assenza della querela prevista dalla Riforma Cartabia, impedendo la prosecuzione dell’azione penale. Inoltre, è stata introdotta un’attenuante per lesioni con sfregio permanente del viso nei casi di lieve entità. La Corte ha anche confermato la condanna di un sergente per vilipendio allo Stato su Facebook, con una pena di un anno di reclusione. Per quanto riguarda l’omicidio della compagna, la Cassazione ha precisato che anomalie caratteriali o alterazioni della personalità non comportano automaticamente la non imputabilità. In ambito civile, è stata ribadita la necessità di un espressa autorizzazione del difensore per l’elezione di domicilio presso lo studio del legale.

Nel settore civile, la Corte ha ridotto le pendenze di oltre 30.000 unità in poco più di due anni, raggiungendo e superando l’obiettivo del PNRR relativo al "disposition time" di 901 giorni. Inoltre, la Cassazione ha chiarito che l’omessa notifica dell’avviso d’udienza a uno dei difensori integra una nullità a regime intermedio, che deve essere eccepita dall’altro difensore o dal sostituto. Per quanto riguarda i rifiuti, sono stati introdotti reati specifici per gestione e discarica abusive e spedizione illegale, in seguito alla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per la "Terra dei fuochi".

La Corte ha inoltre dichiarato legittimo il referendum per l’abrogazione totale dell’Autonomia differenziata, mentre è stato bocciato il quesito per l’abrogazione parziale. La decisione della Cassazione è stata seguita da una ordinanza di circa trenta pagine, e la parola finale spetta ora alla Corte Costituzionale. Inoltre, la Corte ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum sul dimezzamento dei tempi di residenza per la cittadinanza italiana e su alcune norme del Jobs act e sugli appalti.

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ERRATA VALUTAZIONE DELLA VOLUMETRIA: LA CASSAZIONE PENALE ANNULLA LA CONCESSIONE

Un provvedimento di concessione edilizia in sanatoria può essere annullato, se il giudice accerta l’illegittimità del titolo rilasciato dalla errata valutazione della concessione

Nel caso di concessione edilizia in sanatoria, “il giudice penale deve accertare la conformità dell’atto alle norme in materia di controllo dell’attività urbanistico edilizia, anche in ossequio alla previsione di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1985, per il quale la concessione in sanatoria estingue i reati urbanistici solo se le opere risultano conformi agli strumenti urbanistici”.

Questa è stata la decisione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34896/2021, una valutazione che definisce un orientamento non solo sul profilo della legittimità di un provvedimento di sanatoria, ma anche su quello sostanziale: nel caso in esame, riguardante il condono edilizio di tre immobili, la Corte d’Appello aveva annullato l’ordine di demolizione dei fabbricati e confermato la concessione di sanatoria. Secondo i giudici, le singole unità avrebbero invece dovuto essere considerate come un corpo unico e quindi insanabile per violazione del limite di volumetria consentita, pari a 750 metri cubi.

La Corte ha fatto riferimento a quanto previsto dagli artt. 6 e 38, comma 5, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (cd. “Primo Condono Edilizio”), richiamati dall’art. 39, comma 6, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (cd. “Secondo Condono Edilizio”), sottolineando che nel caso di bene immobile in comproprietà, per il quale non sia stata operata alcuna divisione, né costituito un distinto diritto di proprietà su una porzione dello stesso, la presentazione di distinte istanze di sanatoria da parte di diversi soggetti legittimati costituisce un frazionamento artificioso della domanda per eludere il limite legale di volumetria dell’opera.

E’ stato altresì precisato che il giudice ha comunque il dovere di accertare la conformità dell’atto di concessione in sanatoria agli strumenti urbanistici; ne consegue che “il giudice, esercitando il doveroso sindacato di legittimità del fatto estintivo o incidente sulla fattispecie tipica penale, può disapplicare la concessione illegittima ex art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E”.

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Legittimo il licenziamento per giusta causa del dirigente che, nella veste di amministratore, ha posto in essere false fatturazioni e creato una contabilità parallela a danno dell’erario. 

Con l’ordinanza 2815 del 21 agosto 2025 la Corte di cassazione ha confermato il recesso per giusta causa intimato nel 2017 a un dirigente, respingendo il suo ricorso contro la sentenza d’appello che gli aveva dato torto e consolidando un orientamento rigoroso sul rapporto tra fiducia e comportamenti extralavorativi.

Il caso riguardava una serie di operazioni contabili riconducibili alla gestione di sponsorizzazioni sportive, che avevano dato luogo a fatture false e a un sistema extracontabile finalizzato a vantaggi personali.

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Non c’è usucapione sulle facciate dei palazzi, via i cartelloni pubblicitari
L’istituto si configura solo se sono esclusi dall’uso tutti gli altri condòmini

La fattispecie sottoposta al Tribunale di Palermo (sentenza 2797 del 24 giugno 2025) dimostra ancora una volta la spiccata peculiarità del diritto condominiale e le molteplici sfaccettature con le quali si manifesta. Il caso è quello di un condominio che ha citato in giudizio un singolo condomino al fine di accertare l’illegittima installazione di alcuni cartelloni pubblicitari sulle facciate dell’edificio e di ottenere dal giudice la condanna alla relativa rimozione. Il convenuto si costituisce in giudizio ed eccepisce l’avvenuta usucapione del diritto reale d’uso su dette facciate (occupate dai propri 4 cartelli pubblicitari, posti 2 su di un prospetto dell’edificio e 2 sull’altro).

Come si dimostra l’usucapione
Il Tribunale, sollecitato dall’eccezione del convenuto, affronta tale questione preliminare, affermando, in via generale, che, nel condominio, è pur possibile l’usucapione di un bene comune, tuttavia è necessario che sussistano alcuni specifici presupposti che consistono nel possesso ultraventennale della cosa, nell’evidenza di tale possesso a tutti gli altri condòmini e, infine, nel contemporaneo impedimento a questi ultimi dell’utilizzo del medesimo bene.

Pertanto, se di norma, affinché si verifichi l’usucapione (di un bene immobile qualsiasi) è sufficiente un comportamento posto alla luce del sole, anche in malafede, tale da evidenziare l’esercizio di un potere attribuito dalla legge solo al proprietario e non ad altri, nel caso dell’usucapione di una parte condominiale, l’interessato deve invece dimostrare che gli altri comproprietari sono impossibilitati ad avere rapporti concreti con il bene in contestazione.

Nella specie, il convenuto, da un lato, ha dedotto di avere esercitato il diritto d’uso su una porzione della facciata condominiale per un periodo superiore al ventennio prescritto ai fini dell’usucapione, dall’altro ha affermato che tale minima occupazione non ha impedito l’utilizzo agli altri condòmini della residua parte comune. La conseguenza è che, non essendosi verificato il presupposto della totale esclusione degli altri condòmini dall’utilizzazione del particolare bene comune, non si può configurare l’eccepito acquisto per usucapione del diritto di uso esclusivo sulla porzione della facciata condominiale.

In conclusione, quindi, non solo non sussiste alcun “acquisto” del bene in titolarità esclusiva, ma i manufatti installati devono anche essere rimossi. A ciò si aggiunga, che la Corte siciliana opera anche un riferimento alla nota pronuncia a Sezioni unite (Cassazione, Sezioni unite 17 dicembre 2020, n. 28972) secondo la quale il cosiddetto «diritto reale di uso esclusivo» su una “parte” condominiale (invero, previsto in molti rogiti notarili) non è riconosciuto dall’ordinamento in quanto contrasta con il principio del numero chiuso dei diritti reali e della tipicità degli stessi (in forza del quale è preclusa la costituzione di nuove tipologie).
In conclusione, per quanto l’utilizzo della cosa comune da parte del singolo sia prevaricante rispetto a quello degli altri condòmini (e lasci a questi ultimi una porzione utile del bene assai residuale), la permanenza del godimento da parte di tutti impedisce il verificarsi di qualsiasi usucapione.

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La Cassazione apre ai patti prematrimoniali
La Cassazione apre agli accordi prematrimoniali. Siamo forse ancora lontani dai contenuti del contratto stipulato tra il boss di Amazon Jeff Bezos e Lauren Sanchez che, prima delle nozze celebrate a Venezia, hanno fissato paletti praticamente su tutto, scappatelle comprese, ma la Suprema Corte aggiunge ora un’altra tappa di un cammino che sembra irreversibile.

Con l’ordinanza 20415 la Cassazione ha infatti giudicato lecito l’accordo tra marito e moglie con il quale, in caso di separazione, il marito si impegna a restituire alla moglie il denaro di proprietà della moglie e da costei speso per pagare le spese di ristrutturazione di una casa di proprietà del marito. 

Si tratta dell’ultimo episodio giurisprudenziale in tema di patti stipulati in corso di matrimonio in vista dell’eventualità della separazione o del divorzio. In termini tecnico-giuridici, la decisione viene argomentata con la considerazione che l’accordo oggetto di giudizio era qualificabile come contratto atipico diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela (articolo 1322 del Codice civile) sospensivamente condizionato all’evento della separazione coniugale. 

In altre parole, la separazione non è intesa dalla Cassazione come “causa” dell’accordo, ma come accadimento dal quale dipende l’efficacia delle pattuizioni stipulate dai coniugi (nel caso specifico, l’obbligazione di restituzione del denaro prestato dalla moglie al marito).

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Nessun reato per il giornalista e il direttore responsabile di una testata online per l’articolo nel quale si denuncia la lottizzazione della Rai, con le nomine dei dirigenti scelti dai partiti. Anche se il redattore fa dei nomi, il suo articolo non va considerato un attacco personale, ma rientra nella critica politica, esercitata su un tema di grande interesse per l’opinione pubblica.

Partendo da questo presupposto, la Cassazione ha accolto il ricorso dei due giornalisti condannati nei gradi di merito per diffamazione, riconoscendo la scriminante prevista dall’articolo 51 del Codice penale, che scatta per chi adempie a un dovere. E il dovere in questione sta nell’esercizio del ruolo di «cani da guardia del potere», affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Suprema corte ricorda che il solo limite all’esercizio del diritto di critica è quello del rispetto della dignità altrui, «non potendo lo stesso costituire mera occasione per gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale».

Nel caso esaminato dai giudici di legittimità obiettivo del pezzo - finito nel mirino del dirigente Rai citato come in quota alla Lega, che aveva querelato - era denunciare l’influenza politica sulle nomine della Rai.

L’interesse dell’opinione pubblica
Un tema rispetto al quale il dibattito ha una grande importanza «a fronte del diritto dei cittadini a sapere se il servizio pubblico è o meno influenzato - scrivono i giudici - nel rendere le notizie dalle convergenze politiche». Il diritto a dare un alert sul rischio di un’informazione non pluralista giustifica l’elevato livello di protezione della libertà di espressione.

A spezzare una lancia in favore di una stampa libera è stata di recente, ancora una volta, la Corte costituzionale con la sentenza 44/2025, che ha indicato il pluralismo dell’informazione come valore centrale in uno Stato democratico. I giudici di legittimità, in linea con la Consulta e con i giudici di Strasburgo, come con la stessa giurisprudenza della Suprema corte, affermano il principio di diritto secondo il quale «in tema di diffamazione, qualora la notizia abbia ad oggetto l’influenza della politica o di altri fattori sugli stessi mezzi di informazione, la scriminante di cui all’articolo 51 del Codice penale, deve essere vagliata tenendo conto dell’esigenza, portato essenziale di uno Stato democratico, di assicurare un pubblico dibattito sul pluralismo informativo, rinvenendosi, dunque, l’unico limite ad essa in un attacco aggressivo alla persona privo di ogni giustificazione nel contesto della più ampia critica politica che si vuole veicolare ai cittadini”.

Le nomine dei dirigenti in quota ai partiti
Insieme a quello di altri giornalisti era stato indicato anche il nome del dirigente che aveva querelato «associandolo al partito politico della Lega, e di un altro giornalista, che si assumeva essere vicino al Movimento Cinque Stelle, evidenziando che i relativi incarichi di vice-direzione non avevano un contenuto preciso - si legge nella sentenza - e che tali professionisti non avevano neppure un ufficio presso la sede romana della Rai, dove non erano stati visti». Un’accusa di “assenteismo” che non andava letta isolata dal contesto.

Da una lettura complessiva dell’articolo anche un lettore medio poteva percepire «che il senso di tali considerazioni era effettuare una critica di carattere squisitamente politico - scrive la Cassazione - volta a porre in rilievo che all’interno della Rai erano stati creati posti apicali o semi-apicali, anche non necessari, per soddisfare le molteplici e diversificate aspettative dei partiti politici, aspettative tanto numerose da causare ritardi nelle nomine».

Affermazioni che non si traducono in un attacco alla professionalità della persona offesa, ma sono funzionali alla tesi sostenuta nella generale prospettiva della critica politica alle modalità di individuazione dei giornalisti preposti alla direzione del servizio pubblico di informazione della Rai. Lo stesso requisito della verità putativa, dunque, avrebbe dovuto essere valutato non sull’effettiva presenza in ufficio del dirigente «ma sulla notizia che mirava a veicolare ai lettori, insieme ad altre, quella informazione, ossia sulla cosiddetta lottizzazione delle nomine presso la Rai, argomento, questo, di costante e grande rilevanza nel dibattito pubblico da molti anni».

Categoria
giudiziaria

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