Rubrica Religiosa a cura di Don Gaetano Sardella 'La pace del Signore scende sulle nostre paure'

di Gaetano Sardella 

1) La pace del Signore scende sulle nostre paure

Aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei ma anche di se stessi, della propria viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento. Sembra che manchi l'aria.

Eppure Gesù viene, nonostante il loro e il mio cuore inaffidabile: e stette in mezzo a loro. Mi conforta pensare che se trova chiuso lui non se ne va; se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì. Shalom, ha detto, saluto biblico che significa molto più della pace come semplice fine delle violenze, indica la forza dei miti e dei nonviolenti dentro la logica del più armato, la luce dei puri di cuore dentro la nebbia delle astuzie, la serenità dei giusti nelle ingiustizie, la perseveranza degli onesti fra le disonestà. Soffiò e disse: ricevete lo Spirito Santo.

Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, il vento sottile dell'Oreb su Elia profeta, quello che scuoterà le porte chiuse del cenacolo: ecco io vi mando! «Se non vedo e non tocco, non crederò». Povero, caro Tommaso, diventato addirittura proverbiale! Vuole delle garanzie, e ha ragione, perché se Gesù è vivo tutta la sua vita ne uscirà rovesciata.

Gesù si avvicina alla nostra lentezza del credere con pochi, semplici verbi: guarda, metti, tocca. Tommaso comprende da quei fori il motivo per cui Cristo è risorto: per un amore scritto con ferite ormai incancellabili, da cui non sgorga più sangue ma luce. Tommaso si arrende non ai suoi occhi o al suo toccare, ma a questa esperienza di pace offerta da Gesù per ben tre volte. E la sua pace scende ancora sulle nostre sconfitte, sulle nostre chiusure, sulle nostre paure. Alla fine Tommaso passa dall'incredulità all'estasi. Se poi abbia toccato o no il corpo del Risorto, non è importante. «Mio Signore e mio Dio» Tommaso ripete quel piccolo “mio” che cambia tutto, che non indica possesso geloso, ma appartenenza, eco del Cantico dei Cantici: il mio amato è mio e io sono sua! Mio Signore, che mi fai vivere, che sei la parte migliore di me. “Mio”, come lo è il cuore. E, senza, non sarei. “Mio”, come lo è il respiro. E, senza, non vivrei.

Beati quelli che senza aver visto crederanno. Beatitudine consolante che finalmente sento mia. Gesù mi dice beato! Beato chi fa fatica, chi cerca a tentoni, chi non vede ancora eppure cammina avanti, “siamo pellegrini senza strada, ma tenacemente in cammino” (Giovanni della Croce). La fede è il rischio di essere beati, cioè felici.

Di vivere una vita non certo più facile, ma più piena e appassionata. Ferita sì, talvolta, ma luminosa comunque e perfino guaritrice. Così termina il Vangelo, così inizia la mia sequela: col rischio di essere felice.

2) L’ultimo passo che la Liturgia della Parola ci chiama a fare è quello di chi osa aprirsi all’impossibile. È l’ultima domenica prima di Natale e siamo invitati a predisporci ad accogliere questa nascita così strana, così umanamente impossibile.

Il dono di Dio oltre la mancanza di fede umana
Nella prima lettura Isaia ci racconta dunque la storia di una nascita antica in cui qualcun altro, il re Acaz, è chiamato ad aprirsi alla fede, ma non lo fa (Is 7,10-14). Noi possiamo scegliere di assumere una differente posizione! L’elemento più paradossale di questa vicenda è però il fatto che, per assurdo, proprio il peccato di Acaz, proprio l’ostacolo che lui pone, diventa occasione per un dono di Dio ancora più grande… che ci riguarda oggi.

Ripercorriamo questa vicenda. Il re di Giuda, nel corso della cosiddetta guerra siro-efraimita (ca. 734-733 a.C.), sentendosi minacciato dai suoi nemici (la Siria e il regno del Nord) viene invitato dal Signore, per mezzo del profeta Isaia, a chiedere un segno che lo possa rassicurare. Può chiederlo in qualunque ambito, in cielo o negli inferi, proprio per dire che il Signore è totalmente disponibile a soddisfare ogni suo desiderio. Si tratta, oggettivamente, di una richiesta piuttosto insolita e, tuttavia, sono moltissime le situazioni attestate dalla Scrittura in cui il Signore chiede a qualcuno qualcosa di inatteso (pensiamo alle molte azioni simboliche che i profeti devono compiere, alla missione che è associata ad ogni racconto di vocazione, ecc.). Un particolare non deve sfuggirci: Acaz deve chiedere al Signore, suo Dio, cioè a Colui con cui dovrebbe essere in una relazione di piena consegna, di fiducia. Ma il Signore è davvero il suo Dio, oppure la sua vita si appoggia su altri riferimenti? La domanda, ovviamente, non riguarda solo l’antico re.

La risposta di Acaz sembra quasi rispettosa, piena di un santo timore del Signore. Rifiuta di chiedere il segno adducendo, come motivo, il non voler tentare il Signore. Nella Bibbia il verbo «tentare, mettere alla prova» (nsh) è usato nel medesimo senso (cioè per parlare del popolo che mette alla prova Dio) in un caso che diverrà paradigmatico, cioè in Es 17,2.7. Si tratta dell’episodio di Massa e Meriba, in cui gli israeliti mormorano contro Dio, pretendendo acqua da bere e accusandolo di averli semplicemente portati a morire nel deserto. Le intenzioni d’amore del Dio liberatore vengono così del tutto fraintese!

Acaz dunque, riferendosi a quella vicenda, dice di non voler costringere il Signore a fare qualcosa per lui. Il problema è che, a quanto pare, il re non ha assolutamente ascoltato né compreso la situazione. Dio non è costretto a nulla da nessuno e, soprattutto, in questo caso, è Lui stesso che propone e offre. Il re finge di essere rispettoso, ma il profeta smaschera con forza questo atteggiamento di falsa umiltà perché non si fonda su una vera fede. Infatti Acaz ha già deciso che cosa fare: chiamare in aiuto l’Assiria invece che fidarsi del Dio di Israele.

Il profeta allora non parla più direttamente con lui, ma allarga la prospettiva a tutta la casa di Davide (quindi alla casa regnante) dichiarando che stanno stancando il suo Dio. Di nuovo l’aggettivo possessivo è importante. Isaia, infatti, può dire a buon diritto «il mio Dio» perché, a differenza di Acaz, vive una relazione autentica con il Signore. Per questo riconosce anche da dove viene la stanchezza del Signore, ovvero dalla mancanza di fede del re e del suo popolo che, spesso, si accontenta di ritualità prive di sincerità (cfr. Is 1,14). Tutto sembrerebbe doversi concludere qui, con il rifiuto del re e una situazione di stallo senza via d’uscita. Invece Dio porta avanti la storia andando oltre il rifiuto del re e donando Lui stesso un segno non richiesto. Si tratta di un bambino, che però ha due caratteristiche: nasce da una donna particolare e ha un nome che indica la sua missione.

Il termine ebraico utilizzato in riferimento alla donna indica una giovane, generalmente non sposata (ma non sembra essere un dato assoluto) e quindi, secondo i canoni dell’epoca, anche vergine. L’interpretazione più ovvia è che il bambino sia il figlio di Acaz, cioè Ezechia, e che la donna sia la giovane sposa del re. Il segno consisterebbe quindi nel permanere della dinastia davidica, nonostante la pretesa dei suoi nemici di deporre Acaz. Su questo dato storico si inserisce a buon titolo anche una possibile interpretazione messianica, sostenuta in particolare dalla traduzione greca che sottolinea maggiormente l’elemento della verginità: Isaia profetizza il prodigio, cioè una nascita verginale, che Dio è in grado di compiere.

In ogni caso risulta chiaro che Dio dona un segno dentro la nostra storia umana: ciò si evidenzia grazie al nome simbolico del fanciullo, Emmanuele, «con noi è Dio». La promessa fondamentale è esattamente questa: che Dio è con noi, è presente, è dalla nostra parte (cfr. Sal 46/45,8.12). Dio è colui che si fa accanto e aiuta nelle situazioni di necessità, di povertà. Ovviamente, come attesta tutta la storia biblica, ciò non significa che le difficoltà spariscono, ma che abbiamo Qualcuno al nostro fianco per affrontarle. La condizione per gioire del segno è la fede. Per questo il re Acaz non ne gioisce.

Giuseppe uomo giusto e pieno di fede
Chi ne gioisce, invece, nella liturgia di questa domenica, è indubbiamente Giuseppe, il cui personaggio è in completa antitesi rispetto al re (Mt 1,18-24). Il testo si apre dichiarando che verrà offerta una narrazione su come sia avvenuta la nascita di Gesù Cristo. Brevemente si accenna alla madre e al fatto che il concepimento di questo bambino sia frutto di un’opera divina. Ma poi l’attenzione si focalizza su Giuseppe e sulle sue scelte di fronte a un evento apparentemente assurdo e del tutto incredibile. Il testo sottolinea con decisione il fatto che Giuseppe sia un uomo giusto, il che, nella Bibbia, ha sempre una forte connotazione relazionale e pratica. In che cosa dunque consisterà la sua giustizia? In primo luogo nel suo desiderio di non fare del male a nessuno e di preservare la vita di Maria e del figlio che lei attende. Giuseppe non comprende ancora tutto, non ha tutti gli elementi, ma non è mosso da nessun desiderio di vendetta e, al contrario, continua a rimanere dentro la via dell’amore anche quando questa si rivela difficile. La sua fondamentale attitudine al bene apre davanti a lui una strada nella quale il Signore può ulteriormente operare, dandogli luce e coraggio. L’invito è, infatti, a non avere paura, a non lasciarsi bloccare, ma a prendere con sé, cioè far entrare nella sua vita, Maria (come già aveva deciso) e questo suo figlio così speciale.

Potremmo dire che la giustizia di Giuseppe continua dunque a manifestarsi, ad un livello ancora più alto, nel suo atto di assunzione di responsabilità e, in questo caso, di paternità. Sarà lui a dare al bambino il nome che tutti conosciamo, Gesù, un nome che, come nel caso di Isaia, ha un significato altamente rivelativo della sua missione: «Dio salva». Tutto ciò che Gesù verrà a compiere dovrà dunque essere pensato e interpretato come un’azione di salvezza; ogni suo gesto, ogni sua parola sarà finalizzata a riscattare ogni uomo dal male che lo opprime. L’evangelista commenta questo straordinario annuncio con una tipica citazione di compimento, riferendosi proprio a Is 7,14: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore…». Ciò che accade ora a Giuseppe realizza pienamente ciò che era stato annunciato ad Acaz, cioè che Dio è con noi perché ha scelto di legarsi all’umanità e di rendersi permanentemente presente attraverso la nascita di un bambino.

Per questo celebriamo il Natale ogni anno, per fare spazio dentro di noi al modo in cui il Signore ha scelto di condurre la storia! La nascita di Gesù è l’espressione visibile di questa sua presenza discreta e piccola, ma destinata a non venire meno in nessun tempo della storia. Lui si è fatto carne per rimanere in mezzo ai suoi per sempre. Lo fa oggi in molte forme: nella Parola, nella Chiesa, nel pane, nel fratello… Dio ha decisamente scelto la strada della presenza, ma senza imporsi alla nostra libertà. Per questo domanda a noi, come a Giuseppe, uno spazio di accoglienza.

Un incontro che cambia
È l’esperienza che ha fatto anche Paolo (cfr. Rm 1,1-7), chiamato in condizioni del tutto contrarie al buon senso, quando il suo unico desiderio era perseguitare i discepoli di Gesù. Proprio allora ha sperimentato la bellezza di accogliere un progetto che veniva dall’alto, completamente diverso dal suo, in grado di cambiare la sua vita, riconoscendo in Gesù il servo di Dio, colui che era stato promesso, il discendente di Davide atteso da Israele, il Figlio reso riconoscibile dal Padre attraverso la sua resurrezione. Per questo Paolo ha completamente ri-orientato il suo unico desiderio: farsi annunciatore a tutti della presenza del Figlio di Dio.

L’Avvento è il tempo propizio per accogliere e per andare incontro; è il tempo della preparazione, perché il suo arrivo non ci colga distratti, freddi, orientati ad altro. È il tempo per pensare al Regalo che tutti abbiamo ricevuto e che, se lo vogliamo, può cambiare la nostra vita. Acaz non era disponibile. Noi, come Giuseppe, possiamo decidere una storia diversa per noi stessi: «Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa…» (Mt 1,24). Che anche noi possiamo “fare” in obbedienza alla Parola che abbiamo udito.

Categoria
religione

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